“Luoghi“ – Personale Galleria d’Arte La Torre, Vittorio Veneto TV – 1997
(sintesi dell’intervento critico tenuto in occasione dell’inaugurazione il 22.03.1997)
Ho approvato e caldeggiato il titolo Luoghi che Giorgio Vazza ha scelto per questa piccola mostra e voglio dunque parteciparvi la mia convinzione che i luoghi siano ben altro dai paesaggi e che questi di Giorgio siano, inequivocabilmente, luoghi.
Ci sono planimetrie, in queste carte: tutti i cimiteri sono visti dall’alto; sono campi, fazzoletti; non sono orizzonti di croci.
In alcuni fogli, ancora, piccoli schizzi prospettici chiariscono elevazioni, volumi, consistenze.
Entrambi i sistemi rappresentativi – la planimetria e lo schizzo marginale a mo’ di postilla chiarificatrice – sono prassi consueta dell’architetto: si potrà dunque ipotizzare una correlazione tra intenti, purché sia tale da restituirci comunque quella specificità d’ambito creativo per cui tutti voi, certamente, pur vedendoli in uno spazio così architettonicamente connotato, avrete già mentalmente collocato questi lavori nel contenitore pittura.
La correlazione che individuo sta nella tensione alla inequivocabilità, nella aspirazione ad una univocità interpretativa dell’intero alluso, quell’intero appunto cui la molteplicità rappresentativa è strettamente funzionale.
Ma se il disegno architettonico è destinato ad altri, è preciso cioè come deve esserlo un atto comunicativo, Giorgio invece indirizza questa chiarezza a se stesso; lì l’esito sarà un fatto, un oggetto; qui l’esito è un pensiero, un concepire; concepire che è stato gestazione creatrice ed è infine, a dipinto o meglio a ciclo concluso, un’idea sedimentata, fissata insostituibilmente nella mente di chi l’ha elaborata.
La conferma della natura interiore, mentale, dei lavori di Giorgio Vazza sta nelle presenze frontali, più tradizionalmente disegnative: gli alberi, per esempio, o l’avvallamento del Fadalto che segna ovunque l’orizzonte come fosse un grande uccello; elementi questi che non rispettano la visione dall’alto né quella prospettica ma appartengono a un sistema rappresentativo diverso, frontale, scontornante.
Il metodo di Giorgio Vazza infatti non è concettualmente diverso da quello degli antichi egizi. Tutti noi ricordiamo i loro uomini rigidi con il volto di profilo e un solo occhio frontale, il busto frontale e le gambe di profilo; e qualcuno di noi forse ricorda anche i loro specchi d’acqua visti dall’alto ma abitati da pesci e uccelli ritratti rigorosamente di profilo.
Nessuna incapacità dietro queste bizzarrie, né è verosimile pensarlo di una tanto alta civiltà; il fatto è che l’arte egizia non si basava sulla visione ma sulla conoscenza, non rappresentava cioè le cose fissando un punto di vista ma attingeva alla memoria riproducendo ogni cosa nella posizione che contenesse più informazioni sulla sua reale struttura: un lago di profilo non svelerebbe la sua intera forma né tanto meno un pesce se visto dall’alto.
Se insomma per la più tarda arte occidentale fattore unificante sarà la visione, l’ottica, la prospettiva, qui ciò che garantisce coerenza è il sapere, quella visione mentale che ognuno di noi ha comunque, a prescindere dall’atto del vedere: l’idea “pesce” vive in noi anche in assenza di qualunque esempio; e vive a 360°, non nelle dimensioni di un ristretto angolo di visione!
Ecco perché questi di Giorgio Vazza non sono paesaggi: perché sono aggregazioni impossibili, impossibili da vedere e impossibili da fotografare; ma sono invece luoghi come luogo è ogni spazio che contiene: sono contenitori di pensieri, di emozioni; sono l’esperienza quotidiana e ordinaria del vedere fattasi idea, memoria, luogo interiore.
Ad ulteriore, decisiva conferma, subentra il colore: un colore apparentemente naturalistico nella limitatissima gamma di azzurri verdi gialli e rossi e invece concepito in modo ancora una volta, mentale.
Osserviamo pure ognuna delle pennellate: non le vedremo mai unirsi fino a riempire una forma, a darle consistenza cromatica; le strisce di colore si limitano a ribadire le linee a grafite, e le linee, si sa, non sono altro che tracce di idee, inesistenti in natura ma indispensabili alla chiarezza di ogni rappresentazione.
Il colore stesso, poi, non è saturo, puro; è invece come sbiadito dal tempo della memoria, perché Giorgio Vazza smagrisce l’olio fino a dargli apparenza acquerellata. E il rosso che punteggia i cimiteri non è più caldo e organico come il sangue di cui forse è residuo ma è diventato rosa o arancio, segnale di morte edulcorata da un ricordo affettuoso, ricomposto dal tempo.
Chi conosce le installazioni di Giorgio Vazza sa come siano anch’esse spazializzazioni di idee; come i suoi grandi occhi di legno siano l’oggettivazione di un io mentalmente ed eticamente vigile; ed ecco allora che questi luoghi cartacei completano con coerenza l’espressione artistica più ufficiale, più nota.
Ma, essendone il risvolto più privato, intimo, sentono meno l’onere del messaggio e sono perciò anche leggeri e piacevoli senza il timore di esserlo.
(Marta Mazza)